Valentina (2005)

Guardò l’ora.
La cosa più logica sarebbe stata trovarsi altrove, magari a mangiarsi un gelato con gli amici in quel momento, ma come ogni giovedì era lì, nelle vicinanze della fermata dell’autobus numero due, quello che andava in centro.
“Lo so che sono un idiota”, pensava, ma ogni volta partiva da casa sempre alla stessa ora, con una scusa qualsiasi, percorreva lo stesso itineario e si appostava sempre all’angolo, con buona visuale, ma non ottima, della fermata.
Passava una mezz’ora e poi tornava a casa, ogni volta.
Quel giovedì invece aveva voluto fermarsi, perchè aveva avuto un strana sensazione e certe strane sensazioni devono essere ascoltate. Così fece e si sedette sul marciapiede, con le braccia incrociate come un mezzadro in sciopero, sotto il sole che i quei primi giorni di giugno cominciava a fare la voce grossa.
Magari aveva avuto un contrattempo. Capita a chi è pieno d’impegni come lei. L’altra volta aveva una tale fretta che sicuramente aveva un appuntamento importante. Una roba di lavoro, certo. Doveva essere una specie d’ingegnere e aveva certamente un mucchio di gente che aspettava le sue decisioni. E magari, sospirò, era dispiaciuta del ritardo, perchè tardando non lo avrebbe trovato alla fermata.
“Adesso segui pure le sensazioni? Perchè allora non vai a leggerti il tuo oroscopo come fa la Sonia? Magari ti dice che dovrai spettare solo un altro paio di minuti, e lei, che è del toro (se no che oroscopo sarebbe ?) non potrà fare a meno di farsi vedere. Eh, già...” Perchè lui tutti i giovedì aspettava lei.
Valentina.
Un nome che evocava subito segreti che fanno battere forte il cuore... Sorrise. Chissà se i genitori di Vale erano lettori fumetti? Magari solo il papà, di nascosto... ma la mamma sicuramente non sapeva che fosse il nome di una tipa di fumetti così... Sì, certo, non ne sapeva niente. Era un po’ come tutto quel fiorire di Alessie che casualmente sono tutte dell’anno del primo calendario della Marcuzzi.
Bella la Marcuzzi...
Tutti nomi dati dai papà, sì, ma lei non era così, nel senso che non aveva il caschetto nero. Però era bella. Non c’erano altre parole che potessero descriverla meglio e gli si stampava sempre un sorriso quando ci pensava. E siccome i sorrisi erano merce rara, tutto quanto era giustificato per rivederla, anche quegli assurdi appuntamenti del giovedì.
Erano tante le ragazze che gli piacevano, certo. Qualcuna assomigliava pure a Valentina, ma nessuna era come lei. No, scosse il capo. Nessuna.
L’aveva conosciuta come si conoscono le persone sugli autobus, cioè a causa di qualche accidente. Il loro fu una frenata improvvisa, che li fece cadere una sull’altro. “Scusa... Ti ho fatto male?” Disse lei. “No, no. E tu?...No, no.” Sorriso. “Grazie a te che mi hai frenata. Io? Non è merito mio... No? E’ la forza centrifuga... La forza che? Niente, roba di fisica...Ah. Scusa, è arrivata la mia fermata. Certo, sicura che stai bene? Sì, sì, è andata bene.” E poi lo sforzo supremo: “come ti chiami? Valentina, e tu? Stefano... Ciao Stefano, alla prossima, eh? Ciao Valentina.”
Era di giovedì. A quell’ora. Anzi, mezz’ora prima.
Poi alzò lo sguardo. La fermata era all’incirca a metà della strada, una lunga via tutta dritta che portava attraverso la cittadina verso il centro e che gli autobus percorrevano continuamente. All’orizzonte li vedeva arrivare in quella specie di nebbia formata dal caldo, quando le immagini sono distorte come nei film americani. E all’orizzonte ne vide finalmente uno, di quelli doppi, avanzare come un tirannosauro sulla striscia d’asfalto. Chissà se era quello giusto?
Si alzò, e si spazzolò con le mani i jeans e si aggiustò il colletto della maglietta azzurra, perchè non si sa mai, potrebbe essere lì sopra e sai che figura se ti vedesse così? Tirò un grosso sospiro, poi espirò lentamente, cercando di rallentare i battiti del cuore. Non c’era mai riuscito in vita sua, figuriamoci ora. Così riprese a respirare normale, mentre la sagoma del bus cominciava a prendere gran parte della visuale in fondo alla strada.
Così quel grosso, stupido scatolone arancione si fermò dolcemente di fronte a lui e finalmente aprì le porte a soffietto. Sulle fiancate c’era la pubblicità di un gelato, come quel giovedì.E anche il numero era giusto, e c’erano tante persone che aveva già visto altre volte, ma non lei. Neanche stavolta.
Aspettò che richiudesse le porte e che con un gran baccano di motore vecchio si allontanasse di un po’, poi, raccolte le illusioni sparse sul marciapiede, si incamminò verso casa, con una’idea fissa stampata in testa.
“Giovedì prossimo però la rivedo... E da grande la sposo.” Pensò, e sorrise, e poi si mise a correre come solo i bambini di sette anni sanno fare.

FINE



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