La telefonata giunse quasi attesa, come se in quella maledetta giornata
non mancasse che lei.
Scusa, gli disse, con quel suo modo di fare che voleva intendere
tutto il contrario. Scusa di che? Balbettò lui, che sapeva
già cosa avrebbe dovuto sentire.
Avevamo detto, va be’, avevi detto che non avremmo dovuto
più sentirci, ma, davvero, non ne potevo più e dovevo
sentire la tua voce...
Già, pensò lui e si immaginò un ipotetico ascoltatore
della conversazione, con le sue belle cuffie in testa, a commentare
“ma guarda un po’ ‘sto stronzo che belle pretese
ha...”
E adesso ti senti meglio? Domandò invece, cercando di non
pensare all’ascoltatore.
Oh, sì, mi sentivo soffocare... Sai è bello risentirti,
poterti parlare... E’ passato tanto tempo...
A lui non sembrava tutto quel tempo, ma anche se nessuno lo poteva
vedere, alzò le spalle e fece sì con la testa.
Ne abbiamo parlato anche troppo e lo sai. Era la sua solita arringa
di difesa, ormai stanca e poco convinta, che usciva così,
da sola, senza che nemmeno la pensasse. E poi cosa c’era da
pensare? Lo aveva piantato, così, su due piedi. No, non era
in piedi: era seduto su quel maledetto divano grigio e per un po’
non era nemmeno riuscito ad alzarsi.
“Sai, Stefano era un po’ che mi stava dietro... Non
volevamo farti del male...“ e mille altre parole inutili che
scorrevano sul bordo liscio del divano e cadevano dall’altra
parte, senza rumore, solo un sussurro di fondo. Si può essere
piantati anche peggio, si disse in quel momento e pensò pure
di aver digerito bene la cosa. Meglio Stefano di un altro, no?
Ma io ho bisogno di te, e lo sai... La voce di lei lo riportò
in sincrono col suo orologio. Era rimasto senza argomenti e le barricate
erano inutili, di fronte a quell’onda di piena. Ma perchè
non importa a nessuno di come mi sento io? Soffiò via senza
parlare, le mani inerti lungo i fianchi. Poi si sedette sul divano
grigio e si lasciò sprofondare.