Accesi il registratore, dopo aver messo sù
quella vecchia bobina che mi avevano chiesto di riesaminare. Riguardava
un fatto avvenuto prima della guerra, un caso che fu insabbiato
dalle autorità di allora, ma che curiosamente era stato classificato
come segreto e registrato. Il ronzio dell’apparecchio era
sommesso, come pure il ticchettio dei passi delle segretarie oltre
la porta a vetri dell’ufficio.
Aprii la busta con su scritto
riservato che mi era stata recapitata quella mattina dall’Ufficio
Centrale e in attesa
del cambio, che sarebbe avvenuto a momenti, ne lessi il contenuto.
Preso nota mentalmente delle informazioni, la riposi nel cassetto.
Dopo alcuni istanti, una voce di donna cominciò a parlare
attraverso gli altoparlanti.
Sembrava molto spaventata.
“Lo odiavo. Dio come lo odiavo...
E non era tanto tempo che desideravo farlo. Solo da quando ci siamo
conosciuti la prima volta... Ma era come se avessi sempre desiderato
farlo e quando lo vidi la seconda volta capii che il momento era
arrivato. Bello? Oh, sì, era bello. Sembrava una via di mezzo
fra Vittorio De Sica e Amedeo Nazzari, alto, con due spalle così,
e quel viso da canaglia...
Era una festa organizzata da Anita, la mia amica del cuore, che
compiva diciannove anni quella sera e lui, be', era stato invitato
apposta per me, perchè ero timida e non uscivo mai, così
ci presentarono.
Lui sfoderò un sorriso proprio da attore del cinematografo
e mi strinse la mano. Alberto, mi disse. Mi chiamo Alberto. E voi?
Arrossii e in quel momento dimenticai perfino il mio nome. Restai
impalata a guardargli le mani, con la testa china finchè
Anita intervenne
e glielo disse.
Irma? E' un po' insolito... Disse lui sorridendo.
Dite pure che è un nome orribile, risposi senza smettere
di arrossire, e dicevo il vero. Si vede che mia mamma aveva sofferto
troppo quando mi aveva avuto e mi affibbiò quel, anzi, questo
nome ridicolo, per compensare, aggiunsi velocemente, per vincere
l'imbarazzo.
Ma non dite sciocchezze, Irma. Il vostro è un nome delizioso...
Disse allora lui e mi chiese di ballare.
Dio come lo odiavo.
Ballava divinamente e aveva un corpo muscoloso, da pugile. Il colletto
della camicia, su misura, e di questo potete esserne certi perchè
ho fatto la camiciaia per anni, era perfettamente inamidato e sembrava
non accorgersi, lui, del gran caldo che faceva quella sera. E aveva
sempre quel sorriso soddisfatto di sè disegnato sulle labbra,
mentre mi chiedeva dove abitassi, e che cosa facessi oltre a studiare
cucito dalla signora Iolanda. Era il suo modo di mettermi a mio
agio e in un certo qual modo lo fece, ci riuscì.
Non ho mai odiato qualcuno come ho odiato lui, ma quella sera ci
ballai insieme, e mi sembrò pure di divertirmi. A volte ci
si inganna da soli, vero?
Ma non avevo ancora imparato a riconoscere quelli come lui e ancora
non avevo capito di doverlo odiare. Mi piaceva, aveva dei bei modi
e poi era così bello...
Insistette per accompagnarmi a casa, e c'era un cielo stellato così
limpido che quasi pensai che fosse finto, di quelli dipinti sui
fondali a teatro, quelli della rivista di Macario. Cercò
una stella, o finse di farlo davvero e me la dedicò. Faceva
l'astronomo, mi disse, e aggiunse che c'erano milioni di stelle
ancora anonime e che Irma, il mio nome, era adattissimo per una
stella.
Mi baciò. Dapprima sulla guancia, poi sulla punta del naso
e poi sulle labbra. Aveva un sapore dolce, gradevole. Risi, imbarazzata,
e scappai dentro l'androne, dietro la scrivania del portinaio. Lui
rimase sulla soglia e mi soffiò un altro bacio, aiutandosi
con il palmo della mano, poi fece l' inchino e si congedò.
Un perfetto gentiluomo. Sì, assolutamente perfetto.
E' così che agisce la gente come lui. E fu in quel momento
che capii cosa dovevo fare. Certo.
Sono passati tanti anni, ma il ricordo di quel primo appuntamento
con lui è ancora limpido come fosse capitato un'ora fa.
Mi venne a prendere alle sei di sera. Era un giovedì. Me
lo ricordo perchè il giovedì era giorno di lezione
dalla signora Iolanda e quel giorno avevamo fatto le asole ad un
vecchio cappotto che la signora Iolanda teneva per le sue lezioni.
Aveva un completo blu notte e la camicia bianca, aperta al secondo
bottone e un foulard di seta al collo, fantasia sul rosso scuro,
uguale alla pochette che spuntava dal taschino. In mano un mazzo
di fiori di campo.
Siete incantevole, anche questa sera, signorina Irma... Mi disse,
mentre mi accompagnava allo sportello dell'auto, una berlina nera
dalle grandi ruote cromate.
Ma io, insomma, signor Alberto... Protestai. Sola con voi su quella,
quella...
E' una Isotta Fraschini, signorina Irma. Un'auto del tutto rispettabile,
sa?
Oh, ma io non intendevo l'auto...
Perdonatemii, sono stato terribilmente maleducato. Se preferite
possiamo fare una passeggiata, disse allora lui, con quel sorriso
indelebile sul volto mentre richiudeva lo sportello.
Ancora non so come feci a controllarmi e a rimanere calma, ma ci
riuscii, e ci avviammo verso viale Impero, verso le luci delle vetrine
ancora illuminate. Cominciò a parlarmi del suo lavoro, della
sua passione per le stelle, e sembrava sincero. Oddio, mi vengono
ancora i brividi...
Poi mi mise un braccio attorno alle spalle e mi indicò di
nuovo la volta celeste.
Vedete, signorina Irma? Quella lassù è la Via Lattea,
e quella stella, quella là, quella che brilla più
delle altre...
E' quella che avete chiamato col mio nome, no?
Ma no, signorina Irma. La vostra è quella laggiù,
dritta sopra la pubblicità della brillantina Linetti, proprio
sulla prima "i"... Quell'altra, quella che è così
luminosa...
L'unica cosa che ancora non avevo chiara era come Anita l'avesse
conosciuto. Che anche lei fosse... No, non potevo crederlo...
Lui continuava a parlare, ma io non l'ascoltavo più. Arrivammo
alla fine delle vetrine, in un posto relativamente buio e appartato
e allora...
Mi guardò stupito, mentre gli sparavo con la piccola pistola
di papà che avevo nascosto nella borsetta. Una volta, due,
tre. Cadde sui ginocchi e mi sfiorò il seno con la mano insanguinata,
poi cadde in avanti, la faccia sull'asfalto. Madonna, sembrava davvero
uno di noi, anche da morto...”
La registrazione finì proprio in quel momento e imprecai,
anche se sottovoce.
Dai, cos'è successo dopo? Porca puttana, ma proprio qui doveva
finire il nastro?
Piantala, disse il mio collega, arrivato appena in tempo per sentire
la parte finale della registrazione. Era uno di loro, aggiunse,
con gli occhi chiari e tutto il resto. Lo ha fatto fuori e ha fatto
bene. Piuttosto, la signora Irma è ancora viva?
No, è morta l'anno scorso, risposi sbuffando. In manicomio.
Ah, già, la vecchia procedura. Meglio. E la registrazione
chi l'ha ascoltata?
Intendi oltre a noi due?
Già...
Forse la sorella, ma è mancata anche lei, qualche anno fa.
Dobbiamo esserne certi. Lo sai, il regolamento...
Lo siamo. Anche lei in manicomio...
E l'amica? Quella che faceva gli anni?
Morì poco dopo. Fu investita dall'auto di un dottore che
tornava da un intervento d'urgenza.
Nessun testimone, nessun’altra registrazione... Presi il nastro
e lo gettai nell'inceneritore.
Ok. Ti va un caffè?
Chiusi il faldone relativo al caso, lo sigillai e distrussi
anch'esso.
Aspetta, dissi al collega. Devo fare una telefonata a mia moglie.
Mi aspetti alla macchinetta del caffè?
Lui annuì e mi voltò le spalle robuste uscendo dalla
stanza.
E' proprio vero, mi dissi mentre prendevo la Luger
dal cassetto. A volte assomigliano un po' a De Sica e un po' a Nazzari.
E occupano spesso posizioni di rilievo. E stando alle ultime informazioni,
hanno pure gli occhi chiari, anche se la signorina Irma non lo disse
mai. Già, ma a volte fanno un errore di troppo... Riaprii
il cassetto e presi il silenziatore, lo avvitai sulla canna della
pistola e raggiunsi, per l'ultima volta, il mio collega.