TRAPEZIO(2004)

Da un’idea di A.B. non del tutto compresa...

Ogni volta era come se il mondo si rovesciasse e il cielo prendesse il posto della pista.
Una volta, due... e poi c’era solo la barra orizzontale del trapezio fra lui e l’infinito.
Lo sguardo fisso davanti a sè, la visione periferica dei rilievi delle vene sugli avambracci illuminato dai riflettori e poi gli applausi.
Suoni confusi, grigi, che si coloravano solo una volta che terminato il proprio numero, scendeva a terra. Allora il rumore della folla si faceva musica, si frammentava in centinaia di volti sorridenti, in mani che si colpivano una con l’altra producendo il suono di una immensa cascata.
Manuel guardava quel muro brulicante di colori e suoni e viveva, ne traeva vita. Ma con la mente era sempre lassù, a volteggiare come i colombi che affollavano la piazza del suo paese.
“Forse c’è qualcuno più leggero degli altri...”
“Hai mai visto un piccione vecchio?...”
Ma soprattutto il pensiero che più si affacciava nella sua mente era che “forse la vita che mi è stata assegnata è fatta per stare lassù” e tutte le notti rimaneva a lungo sveglio a fissare il soffitto della roulotte su cui si rifletteva il chiarore rossastro delle fiaccole che illuminavano il campo. Era convinto che solo volando poteva frenare il tempo, e i momenti in cui non lavorava lo sentiva scorrere via senza poter fare nulla per trattenerlo.
Il vento che lo sfiorò la prima volta, era stato quasi piacevole. Stava volteggiando sotto il tendone del circo e fuori faceva un gran caldo. Il trapezio era scivoloso per il sudore e aveva abbondantemente fatto uso della polvere di magnesite per aumentare la presa, ma aveva la vista annebbiata e un dolore cupo alla base del collo. Quella brezza inaspettata lo aiutò a passare indenne la parte più difficile del suo numero, ma non appena riprese fra le sue mani la barra del trapezio si rese conto per la prima volta nella sua vita che non era a suo agio lassù, e una volta terminato il proprio numero ritrovò con sollievo e stupore il piacere di poggiare i piedi su qualcosa di solido.
A volte, mentre volteggiava chiudeva gli occhi. Era una sensazione indescrivibile, perchè nessuno penserebbe che un trapezista possa permettersi il lusso di chiuderli durante un numero a quell’altezza, ma Manuel lo faceva spesso. Gli piaceva sentire l’aria che gli sfiorava le braccia, fischiando leggermente sulle orecchie, fra i capelli, all’interno del trapezio e lo stomaco che si contraeva. “Sono cose che non riesci a sentire con gli occhi aperti. Ci sono troppe cose alle quali devi fare attenzione quando li hai aperti. E’ istintivo e non puoi evitare che una parte di te stesso lavori per conto suo...”
Aveva gli occhi chiusi quando lo sfiorò di nuovo quel vento freddo. Questa volta lo sorprese perchè non aveva nulla di piacevole. L’aria gli toccò le punte dei piedi e risalì lungo la calzamaglia bianca del suo costume come a trattenerlo e al cambio arrivò a malapena ad afferrare il trapezio con una mano sola.
Non ci fu il solito suono confuso di stupore e spavento.
L’aria continuava a fischiargli intorno, mentre con l’altra mano cercava di trovare la presa sulla barra. Ed era l’unico suono udibile quella sera.
Il pugno serrato e le vene del braccio che pulsavano, guardò verso l’alto, intimorito da quella cosa che continuava a trattenerlo, a rallentarlo.
Il vento soffiò ancora più gelido e il pendolo che formava lui stesso col trapezio cominciò a farsi sempre meno ampio. Il formicolare della mano aggrappata alla vita era l’unica sensazione che aveva in quel momento: non sentiva nessun rumore provenire dalla platea, nessun colore rimbalzava sulle corde del tendone, nessun grido di stupore. Decise che avrebbe dovuto darci un’occhiata, mentre finiva di oscillare e si posizionava al centro della pista.
La terza folata di vento freddo lo fece voltare per l’ultima volta verso la volta del circo. Le stelle che si vedevano attraverso gli ampi squarci della copertura sembravano immobili e Manuel riabbassò gli occhi sul suo polso e sul dorso della mano che tremava per lo sforzo. Erano entrambi lucidi e chiari di sudore e riverbero di stelle. I fari erano spenti e l’unico barlume che percepiva era quello che passava fra i tiranti e i due pali principali del tendone.
Volse un ultimo sguardo verso l’alto e poi il viso verso la pista. Le sedie vuote e impolverate. La pista spazzata dal vento.
Quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva sentito quel vento gelido?
Che sensazione aveva provato quella volta?
“Forse la vita che mi è stata assegnata è fatta per stare lassù”...Ripensò e nel suo cuore fu finalmente certo che quella fosse la verità.
Il trapezio improvvisamente liberato ebbe un sobbalzo verso l’alto. Continuò a penzolare stancamente ancora per qualche minuto in oscillazioni sempre più corte, finchè si fermò di nuovo al centro della pista.

FINE


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