Da un’idea di A.B. non
del tutto compresa...
Ogni volta era come se il mondo si rovesciasse e il cielo prendesse
il posto della pista.
Una volta, due... e poi c’era solo la barra orizzontale del
trapezio fra lui e l’infinito.
Lo sguardo fisso davanti a sè, la visione periferica dei
rilievi delle vene sugli avambracci illuminato dai riflettori e
poi gli applausi.
Suoni confusi, grigi, che si coloravano solo una volta che terminato
il proprio numero, scendeva a terra. Allora il rumore della folla
si faceva musica, si frammentava in centinaia di volti sorridenti,
in mani che si colpivano una con l’altra producendo il suono
di una immensa cascata.
Manuel guardava quel muro brulicante di colori e suoni e viveva,
ne traeva vita. Ma con la mente era sempre lassù, a volteggiare
come i colombi che affollavano la piazza del suo paese.
“Forse c’è qualcuno più leggero degli
altri...”
“Hai mai visto un piccione vecchio?...”
Ma soprattutto il pensiero che più si affacciava nella sua
mente era che “forse la vita che mi è stata assegnata
è fatta per stare lassù” e tutte le notti rimaneva
a lungo sveglio a fissare il soffitto della roulotte su cui si rifletteva
il chiarore rossastro delle fiaccole che illuminavano il campo.
Era convinto che solo volando poteva frenare il tempo, e i momenti
in cui non lavorava lo sentiva scorrere via senza poter fare nulla
per trattenerlo.
Il vento che lo sfiorò la prima volta, era stato quasi piacevole.
Stava volteggiando sotto il tendone del circo e fuori faceva un
gran caldo. Il trapezio era scivoloso per il sudore e aveva abbondantemente
fatto uso della polvere di magnesite per aumentare la presa, ma
aveva la vista annebbiata e un dolore cupo alla base del collo.
Quella brezza inaspettata lo aiutò a passare indenne la parte
più difficile del suo numero, ma non appena riprese fra le
sue mani la barra del trapezio si rese conto per la prima volta
nella sua vita che non era a suo agio lassù, e una volta
terminato il proprio numero ritrovò con sollievo e stupore
il piacere di poggiare i piedi su qualcosa di solido.
A volte, mentre volteggiava chiudeva gli occhi. Era una sensazione
indescrivibile, perchè nessuno penserebbe che un trapezista
possa permettersi il lusso di chiuderli durante un numero a quell’altezza,
ma Manuel lo faceva spesso. Gli piaceva sentire l’aria che
gli sfiorava le braccia, fischiando leggermente sulle orecchie,
fra i capelli, all’interno del trapezio e lo stomaco che si
contraeva. “Sono cose che non riesci a sentire con gli occhi
aperti. Ci sono troppe cose alle quali devi fare attenzione quando
li hai aperti. E’ istintivo e non puoi evitare che una parte
di te stesso lavori per conto suo...”
Aveva gli occhi chiusi quando lo sfiorò di nuovo quel vento
freddo. Questa volta lo sorprese perchè non aveva nulla di
piacevole. L’aria gli toccò le punte dei piedi e risalì
lungo la calzamaglia bianca del suo costume come a trattenerlo e
al cambio arrivò a malapena ad afferrare il trapezio con
una mano sola.
Non ci fu il solito suono confuso di stupore e spavento.
L’aria continuava a fischiargli intorno, mentre con l’altra
mano cercava di trovare la presa sulla barra. Ed era l’unico
suono udibile quella sera.
Il pugno serrato e le vene del braccio che pulsavano, guardò
verso l’alto, intimorito da quella cosa che continuava a trattenerlo,
a rallentarlo.
Il vento soffiò ancora più gelido e il pendolo che
formava lui stesso col trapezio cominciò a farsi sempre meno
ampio. Il formicolare della mano aggrappata alla vita era l’unica
sensazione che aveva in quel momento: non sentiva nessun rumore
provenire dalla platea, nessun colore rimbalzava sulle corde del
tendone, nessun grido di stupore. Decise che avrebbe dovuto darci
un’occhiata, mentre finiva di oscillare e si posizionava al
centro della pista.
La terza folata di vento freddo lo fece voltare per l’ultima
volta verso la volta del circo. Le stelle che si vedevano attraverso
gli ampi squarci della copertura sembravano immobili e Manuel riabbassò
gli occhi sul suo polso e sul dorso della mano che tremava per lo
sforzo. Erano entrambi lucidi e chiari di sudore e riverbero di
stelle. I fari erano spenti e l’unico barlume che percepiva
era quello che passava fra i tiranti e i due pali principali del
tendone.
Volse un ultimo sguardo verso l’alto e poi il viso verso la
pista. Le sedie vuote e impolverate. La pista spazzata dal vento.
Quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva sentito
quel vento gelido?
Che sensazione aveva provato quella volta?
“Forse la vita che mi è stata assegnata è fatta
per stare lassù”...Ripensò e nel suo cuore fu
finalmente certo che quella fosse la verità.
Il trapezio improvvisamente liberato ebbe un sobbalzo verso l’alto.
Continuò a penzolare stancamente ancora per qualche minuto
in oscillazioni sempre più corte, finchè si fermò
di nuovo al centro della pista.